domenica 16 febbraio 2014

PAGINE DI VITA
L'articolo che qui riporto non ha bisogno di commenti, è fin troppo chiaro, come chiara è la realtà degli immigrati, del loro destino ''di nulla e da nulla'', nulla in patria, nulla fuori patria.
Come se la loro fosse una vita ''nulla'' dovunque essi vadano,
una vita a cui manca qualcosa, meno importante, meno degna di essere vissuta nel rispetto e nella pienezza delle gioie che essa merita.
Noi uomini siamo abituati a classificare tutto per categorie, 
così ci sono le vite di serie A, quelle di serie B,... fino ad arrivare a quelle ''nulle'', perché appartengono alla categoria dei non classificabili, di coloro che non avendo niente, non hanno diritto neppure alla vita.
Occorre riflettere, occorre recuperare, occorrere rimettere ogni cosa al posto giusto, a cominciare dalla vita, che è una sola ed  è uguale per tutti ed  è un dono che resta tale anche se gli viene tolta  la voce, la dignità e la libertà.
Che nessuna vita umana possa mai essere considerata ''nulla'', saremmo tutti sconfitti, anzi auto-sconfitti, perchè
è tutta l'umanità che perde, quando l'umanità non viene rispettata in tutte le sue parti, soprattutto in quelle più deboli, più bisognose, più silenziose, più maltrattate, più... negate!
I migranti disperati nel limbo di Malta:
“Qui 8 anni di nulla”

Decine di diseredati sull’isola
senza lavoro e prospettive
Pestaggi e morti sospette,

ma le inchieste non fanno mai luce
Qui si può scomparire anche all’ospedale Mater Dei, il più importante dell’isola. È successo a Ifaney Nwokoke, 29 anni, nigeriano. La sua salma è rimasta per due anni chiusa in una cella frigorifera. Sotto sequestro. Dimenticata. Mentre i parenti chiedevano di lui. Dopo la fuga dal centro di detenzione del 6 aprile 2011 con altri sei migranti. Dopo le bastonate prese dai poliziotti. Dopo una «morte sospetta», come viene definita nei documenti dell’inchiesta, che però nessuno nel frattempo è riuscito a chiarire. Anche Mamadou Kamara è morto nel centro di detenzione di Safi nelle stesse «circostanze». Mentre ad agosto, hanno trovato il cadavere di un uomo eritreo a tre miglia dalla costa. Naufragio solitario. Dopo cinque anni di vita a Malta, aveva tentato la traversata su una minuscola barchetta da pescatore. Proprio in questi giorni al tribunale della Valletta si sta celebrando il processo a tre scafisti locali. Nessuno vuole rimanere qui.
«Spesso quest’isola si trasforma in un’autentica maledizione», dice Mark Micallet, caporedattore del Times of Malta. «Pochi migranti riescono ad inserirsi davvero. Quasi tutti vorrebbero continuare il loro viaggio verso l’Italia e il Nord Europa. Sappiamo con certezza che molti pagano per raggiungere le coste del vostro Paese». Del resto, voi cosa fareste nei panni di Said Abdi Liban?
Ha vent’anni, niente da fare. È qui dal 2005. Non ha imparato nulla, non ha conosciuto nessuno. Ha sprecato dentro queste reti ogni singolo minuto della sua esistenza, un giorno dopo l’altro. «Guarda questa infezione sulla testa - dice - nessuno mi cura. Non ho più diritto all’ospedale, perché sono uscito dal programma». Questa parola è esatta. Il programma consiste nel fatto che, dopo un tempo variabile dai 6 ai 18 mesi nel centro di detenzione, dove vengono espletate le pratiche di identificazione, vieni ammesso ai centri di accoglienza aperti. Sull’isola ce ne sono sei. Said Abdi Liban dorme per terra in quello che si chiama «Hangar». Non ha più diritto alle cure, ai 130 euro al mese per le spese personali, e neppure a un materasso. Perché non ha rispettato la regola più importante del programma: firmare il registro del centro tre volte alla settimana. È come avere un guinzaglio. Puoi stare qui se non ti allontani troppo. Altrimenti, sei fuori.
«È uno dei paradossi dell’isola», spiega Fabrizio Ellul portavoce dell’Unchr Malta, l’alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. «Il primo è che ti rinchiudono nel centro di detenzione anche se non hai commesso alcun reato. Il secondo è che quando finalmente esci, devi stare nei paraggi dei centri aperti. Quindi è davvero difficile cercare un lavoro...».
Tutti i minorenni sono parcheggiati per definizione. Non hanno neppure diritto all’intervista sulla loro situazione, fino al compimento del diciottesimo anno d’età. Li vedi ciondolare lungo la strada che porta verso il porto industriale di Birzebbuga, senza speranza di arrivarci. Nessuno li carica. Stanno sotto il sole a picco - 32 gradi a metà ottobre - senza un piano. O forse no. Mustahapa Mukhyar, 16 anni, ascolta Redeption Song di Bob Marley dal suo telefonino, la canzone della redenzione. «Vorrei progredire - dice - fare qualcosa per il mio futuro. Invece mi alzo e vado a dormire, niente altro». Lungo la strada, fra rifiuti e case abbandonate, scende Said Abdi Liban con la sua testa infetta. «In Somalia non ci torno neanche da morto - dice - preferisco essere seppellito qui, piuttosto». Stringe fra le mani una felpa azzurra dell’Italia, che subito indossa per compiacerci. «L’Italia è bella. Era lì che volevo andare. I miei amici stanno molto meglio da voi. Devo trovare il modo di partire». Progettano fughe, mentre stanno sospesi. A consumare la rabbia e le energie, fianco a fianco ai siriani. «Anche loro non vogliono rimanere a Malta - dice Said Abdi Liban - ma capiranno in fretta quanto è dura andarsene».
Gli ultimi dati: 1836 arrivi nel 2013, su 22 barconi partiti dalla Libia. Più di 1000 sono i richiedenti asilo. L’ottanta per cento di loro, secondo le statistiche, otterrà la protezione di Malta. Tutti gli altri resteranno in questo limbo, sull’isola sbagliata. Sperando che sia solo un’altra tappa del viaggio. È proprio questo che sta cantando la viva voce di Bob Marley, anche se in Europa nessuna la sente: «Aiutaci a cantare questi canti di libertà, che è quanto ho sempre avuto. Canti di redenzione... Canti di libertà...».

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